Scriveva il giurista romano Gaio che “vi sono tre tipi di utensili: quelli che non si muovono e non parlano, quelli che si muovono e non parlano (animali), quelli che si muovono e che parlano (schiavi)”. Notizie storiche sulla schiavitù risalgono al IV millennio a.C. In Africa la più potente civiltà schiavistica fu quella egizia; in Medio-Oriente quella assiro- babilonese; in Messico quella azteca; in Grecia e a Roma gli schiavi costituivano una vera e propria classe sociale; in India e Cina vari popoli vivevano in schiavitù. Dopo la scoperta dell’America la tratta degli schiavi africani inaugurò un “commercio” di carne umana che coinvolse diversi paesi europei. Tra gli oppositori di questa infamia spicca il nome di Daniele Comboni. Anche schiavi “bianchi” irlandesi, durante il 17° e 18° secolo, furono deportati e venduti dagli inglesi nelle Indie Orientali e in America: gli schiavi irlandesi non erano nulla più che bestiame umano e costavano la decima parte di uno schiavo africano. Dal 7° secolo d.C., per 13 secoli, “gli storici stimano che 10-18 milioni di Africani furono fatti schiavi dai mercanti di schiavi arabi, cui si deve aggiungere un numero perlomeno triplo di africani uccisi durante le razzie o morti durante le marce di trasferimento” (Wikipedia). Nel corso dell’Età Moderna, pirati arabi e turchi rapirono molti dei loro schiavi abbordando navi e, con assalti anfibi, spopolarono parti di costa italiana e del Mediterraneo settentrionale, divenuto un vero e proprio “mare della paura”. Emerge in questo contesto l’apostolo dei poveri, Vincenzo de’ Paoli, che, dopo aver trascorso due anni come schiavo in Tunisia, scappò con il suo terzo e ultimo padrone, che aveva convertito al cristianesimo.
PERCHE’ IL GIARDINO DEL DIALOGO?
La Storia è la Storia. E’ qualcosa che è accaduto. Quindi immutabile!
E se, invece, la Storia fosse qualcosa di diverso da quanto leggiamo sui libri?
E se quello che vediamo in televisione o sui giornali non fosse tutto vero?
Oppure, semplicemente, se non fosse “tutto”, che poi è la medesima cosa?
Finora abbiamo vissuto con una visione del mondo “ottimistica”, convinti che le barbarie siano cose del passato e che oggi l’Umanità abbia posto rimedio ad errori, ingiustizie e soprusi dei tempi bui.
Ma se cosi non fosse?
Se chi ha oppresso, perseguitato, violentato e tiranneggiato l’Umanità continuasse adesso ad occultare i delitti e gli atti abbietti per attuarli ancora, in forme e modi diversi, magari più subdoli e viscidi ma “consoni” all’evoluzione dei tempi?
In opposizione a tutto ciò il “Giardino del Dialogo” si pone tra gli obiettivi quello di amplificare le flebili voci di quanti si sono prodigati nel silenzio e, molte volte, nell’indifferenza, se non nel disprezzo generale, per aiutare una persona, una comunità etnica, religiosa, sociale o un popolo intero ingiustamente perseguitato, con violenze, fisiche e morali, dai potenti di turno che hanno poi “coperto” i propri misfatti con parole ed intenzioni fatte passare ai posteri come “buone” e “giuste”.
Se vi sono state e vi sono ingiustizie che vengono tacitate, sarebbe il caso di venirne a conoscenza?
E’ lecito sapere quando e come avvennero? Da parte di chi? A danno di chi?
In molti libri sono celebrati, come eroi, coloro che in altri manuali di Storia sono additati come esempi di arroganza, violenza, oppressione e prevaricazione.
In altri casi persone e fatti sono, semplicemente, distrattamente o volutamente “dimenticati”.
Purtroppo è assolutamente vero che la Storia è scritta solo dai vincitori e il potere manipola il passato per controllare il presente e determinare il futuro.
Il “Giardino del Dialogo” vuole ricordare gli avvenimenti ignorati o descritti ad uso e consumo di coloro che in prima persona hanno determinato quegli eventi: tramandandoli faziosamente a proprio vantaggio, deformandoli o cancellandoli dalla memoria per nasconderli ai posteri.
Troppe volte la sorte di popoli interi è stata segnata dalla cupidigia, avidità e sete di potere di alcuni uomini, che hanno in seguito giustificato i loro crimini odiosi con espressioni “politicamente corrette”, quali “libertà”, “giustizia”, “uguaglianza”, “fratellanza”: parole d’ordine che toccano il cuore e sfruttano le emozioni per oscurare la mente.
Purtroppo questo travisamento è sempre accaduto ed accade ancor di più oggi, tenuto conto che un pugno di persone, di cui spesso non si conosce neppure il volto, ha di fatto in mano le redini dell’informazione, controllandola capillarmente in modo monopolistico con un potere tale da riuscire persino a scatenare crisi economiche catastrofiche, che mettono in ginocchio così tanti Paesi, e che talvolta fa credere di risolvere con apparenti “aggiustamenti” telematici…, e ad incidere addirittura sul clima.
Molti Popoli della Terra hanno da sempre sofferto la fame e la sete, le malattie e le guerre in tutte le versioni e fuori da ogni possibile controllo. Oggi queste “variabili” non sono più al di sopra delle capacità di controllo umano, ma possiamo considerarli a ragione come avvenimenti voluti, causati e manipolati secondo il volere di poteri planetari e sovrani quanto anonimi e praticamente “irresponsabili” verso l’Umanità intera.
Le risorse mondiali, oggi, sono sufficienti per sfamare più del doppio della popolazione mondiale.
I soli alimenti che giornalmente finiscono nell’immondizia dei paesi opulenti, creando anche costi per il loro smaltimento, sarebbero sufficienti a sfamare quanti muoiono per fame in un intero continente come l’Africa.
Eppure per i fratelli affamati, i diseredati del mondo, si spenderebbero – così ci propinano i media – miliardi di dollari. Purtroppo, però, la realtà è ben diversa, e, invece di essere aiutate, intere popolazioni sono sfruttate e depredate anche delle risorse naturali della loro terra.
Non aiuti veri, allora. Non tecnologie agricole o industriali per lo sviluppo dei paesi poveri, ma, sotto la definizione rassicurante di “aiuti umanitari”, vendita di armi ai tiranni locali per perpetuare nuove forme di schiavitù e sfruttamento.
Oggi, su circa sette miliardi di abitanti del pianeta Terra, un miliardo soffre stabilmente la fame, e per fame ogni anno muoiono oltre 40 milioni di persone, di cui 20 milioni sono bambini; 2 miliardi di persone, inoltre, guadagnano meno di un dollaro al giorno per vivere, o meglio, sopravvivere.
Allora è lecito chiedersi: i costosi organismi creati per risolvere queste drammatiche situazioni (Onu, Fao, Fmi, Banca Mondiale, Wto, Unesco, Unicef, ecc…), a cosa servono?
Si può ben dire che blaterano a vuoto e con ipocrisia di “rispetto dei Diritti dell’Uomo”.
Mai, nella Storia, si è parlato di “Diritti dell’Uomo” se non per unirle ai doveri che l’Uomo ha nei confronti dei propri simili.
Oggi l’accento è posto solo sui “diritti”, dimenticando i doveri, ma si assiste paradossalmente alla negazione dei diritti stessi, pur proclamati con enfasi secondo un umanitarismo parolaio e falso.
Si vogliono in sostanza toccare i cuori per ottenebrare le menti, far tacere la lingua e negare il libero pensiero a favore del “pensiero unico”.
Da diversi anni, in tutto il mondo, sono stati realizzati parchi, sacrari e santuari, per alcuni versi simili al nostro “Giardino del Dialogo”, dove sono onorati coloro che con le loro idee, parole e azioni hanno eroicamente protetto, pagando di persona, la vita morale e materiale di tanti altri loro simili, durante guerre, genocidi e persecuzioni.
Noi qui ricordiamo le “azioni” dei Martiri e dei Giusti nei cinque continenti, confidando che il racconto delle loro storie e scelte di vita in momenti così drammatici possano essere d’insegnamento ed emulate dalle nuove generazioni.
Il “Giardino” avrebbe potuto essere chiamato “dei Giusti”, come quello presente in Israele e tanti altri che sono sorti nel mondo, anche nel nostro Paese. Sarebbe stato oltretutto un riferimento diretto alle 36 targhe che richiamano i “36 giusti” per amor dei quali Dio non distrugge il mondo, qualunque cosa accada.
Avrebbe potuto essere “Il Giardino degli Eroi”, perché tali sono in effetti Coloro che hanno messo a repentaglio la loro vita per gli altri e che sono qui ricordati e onorati.
Oppure “dei Martiri”. Ne ho discusso a lungo con tanti collaboratori, ma nessuno degli attributi rendeva completamente l’idea.
Ho pensato allora che il “Dialogo” è l’unico strumento, ideale e pratico, che condensa ed esprime pienamente cosa occorre fare e cosa occorre sapere.
Per “dialogare” occorre “conoscere”, ed ogni targa del giardino tocca una tragedia che spesso viene taciuta o deformata: quindi non è conosciuta.
Occorre pertanto conoscere per dialogare, anche perché solo dal dialogo e dalla condivisione può nascere la vera concordia tra i popoli: solo la conoscenza reciproca può portare alla comprensione reciproca.
Molte volte reputiamo l’altro un “diverso” da noi, ma in realtà ha solo altri problemi che, in molti casi, non conosciamo o non comprendiamo.
E allora? Bene, “Giardino del Dialogo”, ci è parsa l’intitolazione più adatta: per aprire le menti ed i cuori, per conoscere cosa è accaduto ieri, capire cosa veramente succede oggi e creare una Memoria Universale Condivisa per evitare che i mali del passato si ripetano nel futuro.
Questi sono alcuni degli obiettivi del “Giardino del Dialogo”.
Gli avvenimenti, (esaltanti o ignobili), le persone (con le loro vigliaccherie o i loro eroismi), gli atti (vergognosi o sublimi) che sono esposti nelle diverse “targhe” e nei diversi capitoli, non sono mai frutto di ideologismi pro o contro qualcuno o qualcosa, ma sempre frutto di una ricerca della Verità, soprattutto se occultata o rimossa ad arte dalla memoria collettiva.
Come già detto, oggi le tecniche di controllo e sudditanza sono molto più sofisticate e, come tutte le strade che portano all’inferno, ammantate di buoni propositi di facciata.
La stessa “civiltà occidentale” sembra oggi minata al proprio interno ed orientata a demolire tutti i valori tradizionali sui quali è stata edificata nel corso dei secoli: la droga sta distruggendo alla base le giovani generazioni; si sta distruggendo la famiglia che, anche nella crisi attuale, è stato l’unico baluardo a difesa dei più deboli: giovani ed anziani; i figli non dovrebbero più essere considerati un dono ed un frutto dell’amore, ma un prodotto da scegliere a catalogo e produrre con l’utero in affitto, premio all’egoismo di ricchi annoiati, giocattolo da ricevere e poi abbandonare qualora il gioco diventasse noioso.
Questi sono solo alcuni degli aspetti che riguardano etica, rapporti umani e società.
Ma non possiamo dimenticare i conflitti che tuttora insanguinano il pianeta; le tragedie provocate dall’ISIS – e da chi l’ha generato e continua a sostenere nel “democratico Occidente” – che sfociano negli atti terroristici alle porte delle nostre case; la tratta di milioni di uomini e donne, mascherata da finto umanitarismo; i profughi creati da chi finanzia le guerre e poi finge di volerle scongiurare; le stragi che, in un silenzio assordante, avvengono nel Donbass, in Nigeria, Yemen ed in altre parti del mondo; la cancellazione, tuttora in atto, del Tibet e della sua popolazione, la più pacifica del mondo, tollerata sull’altare del “business is business”, che fa tacere il mondo intero davanti ai crimini perpetrati dalla Repubblica Popolare Cinese.
Gli orrori del passato visti con la verità taciuta ci fanno comprendere la falsa civiltà che vorrebbero imporci per un futuro dove la vera libertà sarà una chimera, una prigione dorata in cui, però, ci faranno desiderare fortemente di voler abitare con piacere.
I vari capitoli dell’opera vogliono stimolare, nelle coscienze di ognuno, un percorso di riflessione per riscoprire ed attualizzare i Valori fondamentali della Civiltà umana.
Non entriamo, in questa presentazione, nei titoli dei singoli capitoli del libro, collegati alle diverse targhe del giardino fisico e di quello virtuale, dove chiunque può accedere per comprendere come il Bene non sta mai tutto da una parte ed il Male tutto dalla parte opposta.
Le atrocità naziste non possono e non devono nascondere quelle dei “liberatori”.
La nascita degli Stati Uniti d’America ha portato anche al massacro dei nativi di quelle terre, conosciuti come “indiani d’America” ed ormai quasi estinti.
Non possono essere taciute e dimenticate le stragi degli Armeni o, per fare un altro esempio, la deportazione di milioni di donne e uomini africani, schiavizzati per secoli.
Il Risorgimento d’Italia nasconde massacri, ingiustizie, ladrocini ed oppressioni che ancora oggi, dopo oltre 150 anni, continuano ad essere occultate.
Il progetto intero del “Giardino del Dialogo”, così come il libro che ne è il supporto cartaceo, le targhe e gli argomenti delle singole targhe, è e non potrà che essere in continua evoluzione.
Tutti i contributi che perverranno per il miglioramento, l’aggiornamento e l’ampliamento delle targhe e dei capitoli sono i benvenuti e, con il ringraziamento dei promotori del progetto, avranno la giusta ed approfondita attenzione.
Vogliamo consegnare questo progetto alle nuove generazioni.
Che comprendano che la libertà non si ottiene mai una volta per tutte, e meno che mai è gratuita, ma va verificata e difesa giorno per giorno, iniziando dalle piccole cose.
La globalizzazione in atto è una grandissima opportunità e, nel contempo, un enorme limite. Sta a noi, soprattutto ai giovani, attuarla per il miglioramento vero della vita di ognuno e del mondo intero, che non sono due cose distinte e separate, perché l’individuo è sempre la base ed il nucleo dell’intera umanità.
Pasquale Totaro
COMUNE DI MOTTA SANTA LUCIA
”IL GIARDINO DEL DIALOGO”
nel Paese del Dialogo
Nella storia umana Bene e Male si fronteggiano con sorti alterne in un interminabile e drammatico duello…
Scegliamo di stare dalla parte del Bene!
In questo “Giardino” viene resa testimonianza di quelle Schiere del Bene che sono sorte ogniqualvolta l’Umanità è sprofondata nelle tenebre più cupe degli abissi del Male: sono i Martiri, i Giusti e tutte quelle innumerevoli Figure Esemplari che, ieri come oggi, hanno avuto il coraggio di opporsi al Male, in ogni sua forma, ed hanno saputo dire di NO e contrastare la persecuzione di altri Esseri Umani.
I 36 capitoli del libro “Il Giardino del Dialogo”, di Pasquale Totaro, fanno da guida illustrativa al progetto
“Un Giardino per tutti i Martiri e i Giusti”.
Alcuni nomi, impressi sulle 36 targhe, serviranno ad evocare personaggi che incontreremo e coi quali dialogheremo idealmente durante il nostro percorso. Queste Figure Esemplari saranno per noi Testimoni di altrettante tragedie della Storia: il numero è simbolico e prende spunto dal racconto dei 36 Giusti per amor dei quali Dio non distrugge il mondo, qualunque cosa accada.
Motta Santa Lucia, 29 maggio 2016
L’Amministrazione Comunale
Sul finire del XV secolo, quando in America sbarcò l’uomo bianco, ebbe inizio lo sterminio dei popoli indigeni: guerre, deportazioni, stragi e malattie, diffuse anche intenzionalmente, ridussero i nativi del 96%. Nel 1788, quando la Gran Bretagna fondò la prima colonia penale in Australia, in quel continente vivevano almeno 750.000 Aborigeni: nel 1830 se ne contavano 80.000 soltanto! Cacciati nelle riserve o all’interno delle foreste amazzoniche, espulsi dagli allevatori di bestiame o dalle società minerarie, defraudati della loro cultura e delle abitudini ancestrali, quel che resta dei loro discendenti, in America come in Australia, soccombe davanti alla sete di ricchezza e allo sfruttamento delle loro risorse ad opera di poteri senza scrupoli. E’ nostro dovere non dimenticare il sacrificio di molti membri dell’American Indian Movement (A.I.M.), tra cui Anna Mae Aquash, scomparsa alla fine del 1975, il cui corpo venne rinvenuto il 24-2-1976, e di Leonard Peltier, prigioniero politico, incarcerato ingiustamente da molti anni negli Stati Uniti; di Marcos Veron e Nisio Gomes, uccisi rispettivamente nel 2003 e nel 2011, ennesimi martiri del genocidio di cui è vittima la popolazione Guaraní-Kaiowá, in Brasile; di Berta Caceres, vincitrice del Premio Goldman per l’Ambiente nel 2015, e che da anni lottava per difendere i diritti delle popolazioni indigene dell’Honduras, assassinata il 3 marzo 2016; e sostenere infine i rappresentanti aborigeni australiani Yvonne Margarula e Wilfred Hicks, a nome di quanti ancora oggi si battono in favore dei diritti di tutte le popolazioni indigene: in America, in Australia, nel mondo intero!
“Non vi è più Vandea, cittadini repubblicani! E’ morta sotto la nostra libera spada con le sue donne e i suoi bambini. Ho appena sepolto tutto un popolo nelle paludi e nei boschi di Savenay. Secondo gli ordini che mi avete dato: ho schiacciato i bambini sotto gli zoccoli dei cavalli e massacrato le donne, così che, almeno quelle, non partoriranno più briganti. Non ho un solo prigioniero da rimproverarmi. Li ho sterminati tutti e le strade sono seminate di cadaveri…” (il generale François Joseph Westermann al Comitato di Salute Pubblica della Repubblica Francese).
“Quello della Vandea – come ha scritto a riguardo l’autorevole storico francese Reynald Secher – è stato il primo genocidio ideologico della storia del mondo contemporaneo. Se esso non fosse stato dimenticato, forse non sarebbe accaduto ciò che si è verificato nel XX secolo. Come è stato possibile dimenticare tutto questo? E’ proprio qui l’essenza del problema: il non dimenticare, il non manipolare la storia, il dovere di dire, il dovere di ricordare…”
Per i rivoluzionari francesi, la Vandea costituiva un vero e proprio laboratorio per la creazione dell’ “uomo nuovo”. Saint-Just sosteneva che «se per raggiungere tale scopo era necessario sterminare il 90% dei francesi, bisognava sterminare il 90% dei francesi, perché il 10% restante sarebbe stato sufficiente a “rigenerare” sia la Francia sia l’Europa». Incapace di fare i conti con la storia, ancora oggi la Francia dibatte se riconoscere o meno il suo “scomodo” genocidio.
Il fungo che colpì le patate in varie parti d’Europa si trasformò in Irlanda, tra il 1845 e il 1850, in una micidiale arma di distruzione di massa, che causò circa 2 milioni di morti e un numero simile di emigrati. Scarsi e spesso inutili gli aiuti da Londra, che aveva creato le condizioni per l’insorgere della carestia con la sua politica. Per alcuni storici non vi fu comunque una volontà di genocidio, o fu limitata ad alcuni funzionari; altri, invece, hanno ravvisato nell’inefficienza delle autorità un piano per trasformare la carestia in pulizia etnica. John Waters (Irish Times) ha definito la carestia “un atto di genocidio, guidato dal razzismo e giustificato dall’ideologia”. All’epoca il “Times” ospitò articoli che sostenevano l’inferiorità etnica degli irlandesi (e dei celti in generale), pronosticandone la prossima estinzione, tanto da prevedere che “un celta sulle rive dello Shannon sarà presto cosa rara come oggi lo è un pellerossa a Manhattan” (1848). Il filosofo illuminista Thomas Carlyle paragonò l’Irlanda al topo denutrito che attraversa la strada a un elefante. Chiosò Carlyle: “Cosa deve fare l’elefante? Spiaccicarlo!” Tra gli aiuti in favore degli irlandesi ridotti alla fame, i più significativi giunsero da Papa Pio IX, dalla Chiesa Cattolica, dagli irlandesi di Calcutta, dalla British Relief Association e dai quaccheri; particolare valore di solidarietà umana assume infine la donazione di 710 dollari da parte degli Indiani Choctaw, vittime anch’essi di genocidio, e costretti solo 16 anni prima dal presidente americano Andrew Jackson al “Trail of Tears”, lunga marcia di deportazione forzata che ne aveva decimato la popolazione.
“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti” (Antonio Gramsci).
Soldati del Regno di Sardegna mandati a morire in Crimea, regioni annesse con plebisciti farsa, massacri di cittadini senza alcun motivo se non l’ “imposizione della libertà”, deportazioni di soldati dell’ex Regno delle Due Sicilie nei lager sabaudi, paesi rasi al suolo, tra cui Casalduni e Pontelandolfo. Fatti del tutto simili erano accaduti pochi decenni prima, nelle violente repressioni delle insorgenze antifrancesi. Prodromo del Risorgimento, le invasioni napoleoniche scatenarono la reazione popolare: con vanghe e forconi i contadini difesero la loro terra. Da nord a sud, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, si ebbero numerose sollevazioni, tra cui le Pasque Veronesi, le insorgenze di Roma e Napoli, l’esempio di Andreas Hofer in Tirolo. I francesi uccisero, come i piemontesi dopo il 1861, chi si ribellava alle loro invasioni, non riconoscendoli come “liberatori”. Le Vittime delle invasioni francesi e piemontesi, dimenticate dalla storia, vengono qui ricordate e onorate.
Emblema di queste morti ingiuste è Angela Romano, una bambina di soli otto anni, fucilata il 3 gennaio 1862 nella piazza di Castellamare del Golfo perché sospettata di connivenza coi cosiddetti “briganti”!
Un popolo, quello armeno, ancora umiliato da chi dimentica una delle più grandi tragedie della storia (Gabriele Vecchione)
Il genocidio del Popolo Armeno perpetrato tra il 1915 e il 1916 dal Governo dei Giovani Turchi – tutti “dunmeh” ispirati alla Massoneria e alla “Giovine Italia” di Mazzini – nell’area dell’Impero Ottomano, è il primo del 20° secolo. Circa un milione e mezzo di armeni furono massacrati e sterminati nelle lunghe marce verso il deserto siriano di Der es Zor. Dalle tenebre del “Metz Yeghérn”, il Grande Male, emergono però le Figure Esemplari di “Giusti” che denunciarono il genocidio e che cercarono di salvare i superstiti. Ne ricordiamo alcuni: Armin Wegner, volontario tedesco nel servizio sanitario in Medio Oriente; Giacomo Gorrini, che fu console italiano a Trebisonda; l’avvocatessa turca Ayşe Nur (Sarisözen) Zarakolu; l’ufficiale circasso Hasan Amca; l’avvocato arabo Fayez El Ghossein; i coniugi svizzeri Jakob Künzler ed Elisabeth Bender; l’insigne scrittore francese Anatole France; l’infermiera Bodil Catharina Biørn e il celebre esploratore dell’Artico Fridtjof Nansen, entrambi norvegesi; il romanziere e drammaturgo austriaco Franz Werfel; la danese Karen Jeppe, che salvò circa duemila tra donne e bambini; Johannes Lepsius, pastore protestante tedesco, Hrant Dink, giornalista turco di origine armena. Le ceneri o un pugno della terra tombale di quanti si opposero al “Grande Male”, sono inumate nel “Muro della Memoria” di Dzidzernagapert (la “Collina delle Rondini”) a Yerevan, dove sorge il Memoriale del Genocidio degli Armeni.
“Mikrasiatikì Katastrofì” (Catastrofe dell’Asia Minore) è il termine con il quale viene indicato l’ultimo atto della guerra greco-turca, iniziata nel maggio 1919 e finita nel settembre 1922, con la sconfitta dei greci. Segna l’atto finale del genocidio dei Greci dell’Asia Minore e del Ponto della regione del Mar Nero, iniziato nel 1914 dai “Giovani Turchi” – tutti “dunmeh” ispirati alla Massoneria e alla “Giovine Italia” di Mazzini – che avevano preso il potere nell’Impero Ottomano. Furono uccise circa un milione di persone. Tra esse il Vescovo di Zilon, Efthymios Agritelis, torturato e morto poi in carcere il 29 maggio 1921 a seguito delle indicibili violenze subite, e Chrysostomos Kalafatis, ultimo Metropolita di Smirne, amputato di orecchie, naso, mani ed infine sgozzato dalla folla turca, alla quale era stato dato “in pasto” dal comandante militare turco Nureddin Pascià, il 27-8-1922. Essi, insieme a tutti religiosi e ai laici caduti durante la Mikrasiatikì Katastrofì, vengono ricordati ed onorati dalla Chiesa Greca la domenica precedente la ricorrenza dell’ “Innalzamento della Santa Croce”, nel mese di settembre.
Seyfo o Saypa, in lingua assira, significa “Spada”: indica la deportazione ed il massacro, parallelo a quello armeno, dei cristiani delle Chiese Assira, Ortodossa Siriaca, Cattolica Sira e Cattolica Caldea, vittime anch’essi del nazionalismo esasperato dei Giovani Turchi, perpetrato negli anni 1915- 1916. Centinaia di migliaia le Vittime. Tra i Suoi numerosi Martiri, il Patriarca (Mar) Shimun XXI Benyamin, assassinato nel marzo del 1918. Il 12-4-2015 Papa Francesco ha dichiarato nella Basilica di San Pietro che “ciò che è accaduto nel 1915 agli armeni, ai siri, ai caldei e ai greci, è stato il primo genocidio del Ventesimo secolo”.
La ricerca di un “posto al sole” in terra d’Africa, per risolvere l’atavica mancanza di lavoro per le popolazioni italiane, si risolse per i Paesi invasi (Libia, Etiopia, Somalia), oltre alle stragi nelle azioni di guerra, in dure successive repressioni. La vicenda dei Martiri del Monastero di Debrà Libanòs è una pagina particolarmente amara della nostra storia. Circa 2.000 tra religiosi e laici furono lì giustiziati, dopo la fine della guerra d’Etiopia, sulla base di sospetti, mai provati, che quel luogo sacro avesse ospitato due eritrei che, il 19-2-1937, avevano attentato alla vita del generale Graziani. La strage di Debrà Libanòs, ovvero la caduta del mito “Italiani, brava gente”, rimase a lungo una pagina “censurata” della nostra storia. Anche in Jugoslavia, durante il secondo conflitto mondiale, le truppe italiane si macchiarono di crimini orrendi dimenticando, purtroppo, come accadde in seguito col calvario delle Foibe, che “sangue chiama altro sangue”. Ma, accanto alle pagine costellate di crimini, è giusto peraltro esaltare anche quelle eroiche. Tra queste, assai poco conosciuta, ricordiamo l’impresa gloriosa della Marina Militare Italiana che, durante la prima guerra mondiale, dal 12 dicembre 1915 al 29 febbraio 1916, imbarcò e mise in salvo 136.000 soldati serbi ed altri 11.651 feriti, oltre a 13.000 uomini della cavalleria e 23.000 soldati austriaci, prigionieri dell’Esercito Serbo: una delle più importanti e vaste operazioni umanitarie di tutti i tempi!
“L’Imperatore Carlo era l’unico uomo dignitoso che uscì dalla guerra in una posizione di capo e, allo stesso tempo, era un santo, ma nessuno lo ascoltò. Sinceramente cercava la pace e per questo è stato disprezzato da tutto il mondo. Una bellissima occasione andò persa” (Anatole France).
E Papa Benedetto XV assicurava: “Carlo d’Austria è un santo!”.
Con la morte dell’Imperatore Francesco Giuseppe, il 21 novembre 1916, in piena Prima Guerra Mondiale, Carlo divenne Imperatore d’Austria. Il dovere più sacro di un Re – cioè l’impegno per la pace – fu da lui posto al centro delle sue preoccupazioni nel corso del terribile conflitto: unico fra tutti i responsabili politici, si adoperò instancabilmente in tal senso.
Possa pertanto l’esempio di vita della Sua Figura irradiare di vera “Luce” i governanti del mondo, troppo spesso intenti ad “usare” la politica solo per meschini interessi di parte; possano i giovani riscoprire, attraverso il Suo Esempio, i Tesori Infiniti di Rettitudine, Umiltà, Pietà e Amore nei quali il giovane imperatore, insieme alla Sua amata consorte, Zita, si è così profondamente identificato nel corso della Sua così breve ma luminosa esistenza! Carlo d’Austria è stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 3 ottobre 2004 e la ricorrenza viene celebrata il 21 ottobre.
“Carlo – disse il Pontefice – deve essere un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica.”
«Ho camminato attraverso villaggi e dodici fattorie collettive. Ovunque era il grido, “Non c’è pane. Stiamo morendo!” Questo grido è venuto da ogni parte della Russia, dal Volga, Siberia, Russia Bianca, Caucaso del Nord e Asia centrale» (G. Jones, comunicato stampa del 29 marzo 1933).
La carestia del 1932-1933, che si verificò in alcuni Paesi della ex URSS, fu dovuta alla collettivizzazione forzata delle aziende agricole private, la deportazione dei contadini più abili, la requisizione dei prodotti alimentari per finanziare l’industrializzazione del Paese. Milioni di persone in Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia e Kazakistan morirono sia di fame sia anche a causa di due tremende epidemie di colera e tifo, in un contesto dove le condizioni igieniche erano disastrose e non esistevano ancora gli antibiotici. I giornalisti ottennero l’accreditamento dal Cremlino solo in cambio del loro “silenzio”. Sconcertante fu il caso di Walter Duranty (New York Times), che all’epoca negò la tragedia: come premio per la sua disonestà, fu insignito del “Premio Pulitzer” per il giornalismo. Avrebbe invece ben meritato quel riconoscimento il suo collega gallese, Gareth Jones che, al contrario, scrisse la verità, “smascherando” l’Holodomor sulla stampa occidentale: forse proprio per questo fu ucciso in Mongolia, nel 1935, in circostanze misteriose. Oscure permangono anche le cause di morte di Volodymyr Maniak, fondatore dell’Associazione dei ricercatori sulle carestie in Ucraina. Di rilievo, infine, il contributo di Leonid Bondar, autore del romanzo “Il cammino su una strada di lacrime e sangue”, nel quale denunciò i crimini di Stalin in Ucraina nel 1932-1933. In Italia le sue poesie sono state tradotte e pubblicate da Alina Gregul nel libro “Le corde del cuore”.
“Ci sono stati dei Giusti che hanno avvertito con particolare acutezza il male e il peccato presenti nel mondo, e che nella loro coscienza non si sono separati da quella corruzione; con grande dolore hanno preso su di loro la responsabilità per il peccato di tutti, come se fosse il loro personale peccato, per la forza irresistibile della particolare struttura della loro personalità.” (da uno scritto di Pavel Florenskij, in occasione del suo primo arresto)
“L’unica resistenza possibile nel Gulag era quella dell’anima” (Gustaw Herling-Grudziński)
Lungo e continuo fu in Russia il processo che, dall’ “isolamento dei nemici di classe”, portò nel 1929 ai campi di lavoro forzato, comunemente chiamati “Gulag”. Insieme con i prigionieri politici, anche le minoranze etniche, non gradite al Governo Sovietico, furono deportate nelle regioni disabitate della Siberia, per lo sfruttamento delle sue risorse. Gli Italiani (giunti in Crimea con due flussi migratori, uno nel 1830 e l’altro nel 1870), furono deportati nel 1942 in Kazakistan e dispersi nelle regioni limitrofe, perché considerati “popolo nemico”. L’associazione “Memorial”, fondata a Mosca alla fine degli anni Ottanta da noti studiosi e dissidenti, custodisce la Memoria delle spaventose repressioni politiche e, nello stesso tempo, ricorda al mondo intero sublimi figure che furono autentiche “luci” negli orrori dei Gulag, come Padre Pavel Aleksandrovič Florenskij, Varlam Salamov e Gustaw Herling.
“Mi rammarico di non essere riuscito a sfondare le difese di Saragozza per poter fare pulizia del clero di quella città e incendiare la grande Basilica della Madonna del Pilar” (P. Nenni)
Dagli anni ‘30 del 1900 fino agli anni ‘70, la Spagna ebbe a soffrire di un lungo periodo di sangue: centinaia di migliaia di persone caddero vittime dei rivoluzionari “rossi” prima, della guerra civile e dei franchisti poi. L’odio dei primi innescò una persecuzione religiosa di inaudita violenza contro la Chiesa Cattolica. Tra i suoi Martiri, onoriamo la Memoria di Monsignor Florentino Barroso, orrendamente mutilato, che, dopo esser stato costretto ad arrancare fino al luogo della fucilazione legato con fil di ferro, morì perdonando i suoi aguzzini; e il sacerdote Manuel Ginés, insieme a 42 contadini, tutti fucilati in quanto “rei confessi di essere cattolici praticanti”. Per anni bastò il solo fatto di essere cattolico per meritare una morte atroce. “Mai nella storia d’Europa e forse in quella del mondo, si era visto un odio così accanito per la religione e i suoi uomini”, scrisse lo storico antifranchista Hugh Thomas. Tra i Caduti per mano franchista ricordiamo qui il giurista Leopoldo Alas Argüelles, militante nella sinistra repubblicana. Terminata la guerra civile, ebbe inizio la lunga dittatura franchista, anch’essa costellata da crimini. I cosiddetti “Patti della Transizione” del 1977 sancirono però il sostanziale silenzio sui crimini franchisti, l’impunità per i responsabili e l’oblio delle Vittime.
L’idea della superiorità biologica della razza “ariana” fu alla base dello stermino degli Ebrei da parte della Germania Nazista. Contro tale “progetto” lottarono con le armi della solidarietà fattiva il Questore di Fiume Giovanni Palatucci, insieme allo zio Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo di Campagna; il commerciante Giorgio Perlasca; lo psichiatra piemontese Carlo Angela; l’agronomo pugliese Paolo Sabbetta; l’operaia Irena Sendler e il famoso pedagogo Janush Korchak, entrambi polacchi; i “Giusti” dell’Islam, fra cui re Mohammed V del Marocco, e numerosi altri uomini e donne: più di 24.000 nomi di “Giusti tra le Nazioni” – come vengono definiti i non ebrei che in ogni Paese, durante la “Shoah”, salvarono ebrei – sono ricordati nel Giardino dei Giusti, a Gerusalemme. Vittime dei nazisti furono anche: i Cristiani, tra cui Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, monaca, filosofa e mistica tedesca dell’Ordine delle Carmelitane Scalze di origine ebraica, convertita al cattolicesimo, e Padre Massimiliano Maria Kolbe, polacco; gli Zingari, tra i quali ben 130 furono salvati dal barone ungherese György Rohonczy; i malati fisici e psichici; gli Omosessuali; gli Uomini e le Donne di colore. I giovani studenti cristiani della Rosa Bianca, capeggiati dai fratelli Hans e Sophie Scholl, e gli ufficiali dello Stato Maggiore che, come il conte Claus von Stauffenberg, pagarono con la vita il sogno di liberare il loro paese dal Nazismo con l’ “Operazione Walkiria”, rendono onore e gloria a tutti i tedeschi che aborrivano tale ideologia.
Tra i crimini di parte alleata, ricordiamo sia i bombardamenti “a tappeto” contro obiettivi civili (tra gli innumerevoli esempi quello della distruzione dell’Abbazia di Montecassino e la vicenda dei 184 piccoli Martiri di Gorla, bambini che trovarono la morte a seguito di un bombardamento alleato), sia le cosiddette “Marocchinate”: stupri di massa e torture subite dal Popolo Italiano nel ‘44 quando, inquadrati nel Corpo di spedizione francese, sbarcarono in Italia i soldati marocchini. Circa 60.000 donne, bambine (e anche persone anziane), specie al Sud, ne furono vittima. Chi tentò di difenderle fu ucciso o violentato a sua volta, come don Alberto Terrilli, che cercò di salvare tre donne dalle violenze dei soldati: legato e sodomizzato tutta la notte, morì due giorni dopo per le sevizie riportate. Eccidi e stragi nazi-fasciste, dove perirono migliaia di innocenti, ebbero luogo a Marzabotto, Meina, Boves, Forno in Valstrona, Fosse Ardeatine, Fondotoce, Fossoli. Un posto di rilievo nella Memoria meritano Teresio Olivelli, che perse la vita per soccorrere un prigioniero che stava per essere ucciso a bastonate dal suo aguzzino; i sette fratelli Cervi; i sacerdoti don Giuseppe Bernardi, Ubaldo Marchioni, Giovanni Fornasini; le “staffette” partigiane Neva, Maria, Itala, Isa, Sprea, Volga, Fiorina 1, Fiorina 2, Menuccia, Stella Rossa; Salvo d’Acquisto, l’eroico carabiniere che salvò un gruppo di civili durante un rastrellamento delle truppe naziste, autoaccusandosi di un crimine che non aveva mai commesso. «Se muoio per altri cento, rinasco altre cento volte: Dio è con me e io non ho paura!», furono le ultime Sue parole.
“Nella storia scritta dai vincitori una particolare condiscendenza fu usata per Tito. Le foibe furono un genocidio, ma dovevano scomparire…” (Luciano Violante, 1996)
Tra il 1943 e il 1945 migliaia di civili italiani furono gettati nelle foibe (voragini rocciose che raggiungono in taluni casi anche più di 200 metri di profondità) dalle truppe di Tito, vittime della “pulizia etnica” imposta dal “maresciallo” jugoslavo, e 350.000 Istriani, Fiumani e Dalmati, per salvare se stessi, le proprie famiglie e la propria identità italiana, affrontarono l’esodo dopo violenze, persecuzioni, confische dei beni e privazione dei diritti civili e religiosi. Tra i Martiri che hanno illuminato le tenebre di quella persecuzione: Don Angelo Tarticchio, ucciso per aver dato rifugio a tanti Istriani nella sua parrocchia, la cui salma, nuda, venne portata alla luce da una foiba, con una corona di spine calcata sulla testa ed i genitali tagliati e schiacciati in bocca; il Beato Francesco Bonifacio, anch’egli gettato per odio ideologico in qualche foiba; Norma Cossetto, ragazza 24enne violentata, torturata e gettata nuda nella foiba di Surani sulle salme di altri istriani. “Chiedo perdono a questi morti perché sono stati dimenticati dai vivi!”, esclamò nel 1991 l’allora Presidente della Repubblica Italiana Francesco Cossiga, in ginocchio davanti alla Foiba di Basovizza, definita da Antonio Santin, vescovo di Trieste, “un calvario con il vertice sprofondato nelle viscere della terra”. Nel “Giorno del Ricordo”, il 10 febbraio di ogni anno, l’Italia tutta onora e commemora i Martiri delle Foibe e l’Esodo dei profughi Giuliani, Istriani e Dalmati.
“Alla mia memoria renderete omaggio se sarete anche voi come me sempre uomini nella coscienza, sempre giovani nel cuore.” (G. Morelli)
La fine della II guerra mondiale segnò per molti l’inizio di un ulteriore periodo di orrore per una lunga serie di stragi, omicidi e sparizioni, perpetrate dai partigiani comunisti, che si protrassero fino alla fine del 1946 ed anche oltre. Ne furono vittime chiunque possedeva una tessera “nera”, partigiani non comunisti, giornalisti scomodi, borghesi e sacerdoti. Onoriamo qui la Memoria di Giorgio Morelli, partigiano delle “Fiamme Verdi”, che morì in conseguenza di un agguato dei comunisti; Renato Seghedoni, comunista e partigiano nelle Brigate Garibaldi, eliminato dai suoi stessi compagni di lotta perché ebbe il coraggio di denunciare i loro crimini; Carlo Borsani, poeta che sempre si era prodigato perché l’Italia non sfociasse nella guerra civile; il cappellano partigiano don Attilio Pavese, ucciso dai suoi compagni perché confortava alcuni prigionieri tedeschi condannati a morte; il Beato Rolando Maria Rivi, seminarista 15enne soppresso dai partigiani dopo inaudite torture, essendosi rifiutato di sputare sul crocifisso; Beatrice Manzoni Ansidei (Società delle Dame della Carità “San Vincenzo de Paoli”), massacrata insieme ai tre figli, la domestica e il cane: all’organizzatore dell’eccidio, Silvio Pasi, è dedicata una via di Lavezzola, vicino alla villa dei conti Manzoni; il grande filosofo Giovanni Gentile, assassinato per mano di un gappista in una Firenze che aveva cercato invano di pacificare sino alla tragica fine; Giuseppe Fanin, sindacalista cattolico ucciso dai comunisti a sprangate la sera del 4-11-‘48.
Nel 1944 Churchillordinò il rimpatrio forzato dei cittadini sovietici stanziati in Occidente: ne vennero sacrificati a Stalin e internati nei gulag circa 2.750.000. Nel maggio ‘45 fu la volta dei Cosacchi, consegnati dagli Inglesi all’Armata Rossa. Il loro comandante, Helmuth von Pannwitz – che in passato si era opposto alla tesi di Hitler che definiva gli Slavi esseri subumani, che mai permise la distruzione di chiese o sinagoghe e che sempre rispettò la devozione dei suoi cosacchi verso la Chiesa Ortodossa – decise, sebbene avrebbe potuto salvarsi, di condividere il destino di morte dei suoi uomini e degli altri ufficiali cosacchi riconsegnati dagli inglesi a Stalin. Milioni di tedeschi furono uccisi dai bombardamenti alleati (nel corso dei quali intere città, come Dresda, furono rase al suolo), o sotto l’avanzata sovietica, costellata da atrocità inaudite: donne nude seviziate e crocifisse sulle porte dei fienili, bambini decapitati o gettati agonizzanti nei porcili. Durissime furono le condizioni di vita dei prigionieri nei campi di concentramento alleati. Il 6 e il 9 agosto 1945 vennero sganciate dagli americani le prime due bombe atomiche nella storia dell’Umanità su Hiroshima e Nagasaki, i maggiori centri della cristianità giapponese.
Dei 75.000 italiani catturati dai russi, solo 10.000 tornarono a casa dopo anni di prigionia. Figure di alto profilo umano e spirituale nell’ambito di quegli eventi furono il cappellano della Divisione “Pasubio”, Mons. Enelio Franzoni, il medico del battaglione “Monte Cervino”, Enrico Reginato e Don Giuseppe Re, cappellano del Battaglione “Ceva”, ucciso dai partigiani sovietici solo perché era un prete.
Mentre durante siccità del 1872-73 morivano milioni di persone, “gli inglesi usarono i soldi del Fondo Indiano per la Carestia per finanziarsi le guerre imperiali, permisero l’esportazione delle riserve comunitarie di grano, impedirono la distribuzione di cibo, mantennero o aumentarono il carico fiscale…” (Mike Davis – Olocausti tardo-vittoriani)
Sebbene le carestie abbiano da sempre accompagnato la storia dell’India, mai sono state così devastanti come sotto il dominio britannico, quando se ne verificarono una trentina. Solo nel periodo fra la metà degli anni Settanta dell’ ‘800 e il primo decennio del ‘900 un seguito di carestie causò decine di milioni di morti, nel totale disinteresse del governo coloniale, preoccupato soltanto ad esportare enormi quantità di derrate alimentari e ad imporre una rapace tassazione sull’agricoltura. Nella lotta contro le politiche che portarono a questi olocausti si distinsero sia patrioti indiani (come Ganesh Joshi, Mahadev Govind Ranade, Romesh Dutt e Dadabhai Naoroji) sia filantropi britannici (come William Wedderburn, Arthur Cotton, William Digby e Florence Nightingale).
Nel corso del 2° conflitto mondiale, la politica bellica inglese innescò una carestia in Bengala, che provocò dai 3 ai 4 milioni di vittime, a causa della deliberata distruzione del raccolto di riso tramite diserbanti da parte delle autorità britanniche, a seguito dell’avanzata delle truppe giapponesi in Birmania.
Nel 1950 il Tibet fu invaso dall’esercito della Repubblica Popolare Cinese. Il Dalai Lama, capo politico e spirituale dei tibetani, tentò una pacifica convivenza con l’invasore fin quando, il 10-3-1959, esasperato dalle continue vessazioni, il Popolo Tibetano insorse al grido di “Libertà e Indipendenza!” La repressione fu feroce e il Dalai Lama dovette fuggire alla volta dell’India, dove tuttora vive. Da allora più di seimila tra biblioteche e monasteri, eredità culturale e religiosa del Paese, sono stati rasi al suolo. Quanti tentarono di opporsi ai saccheggi furono assassinati, con le loro teste spesso appese agli alberi, a mo’ di esempio, e i famigliari costretti a danzare attorno ai cadaveri per “gioire dell’eliminazione dei reazionari”. Circa 1.200.000 tibetani, un sesto dell’intera popolazione, furono uccisi o semplicemente scomparvero, dopo che “qualcuno”, nel cuore della notte, aveva bussato alle loro porte. Di Gedhun Choekyi Nyima, XI Panchen Lama, rapito dai cinesi nel 1995 all’età di sei anni, non si sono più avute notizie. Eppure la resistenza continua: ne sono stati testimoni, tra i tanti, il Dr. Tenzin Choedrak (15-4-1922/6-4-2001), monaco e medico di Sua Santità il Dalai Lama, e il Venerabile Lama Palden Gyatso, nato nel 1933, che ha scritto. “La nostra sofferenza è scritta nelle vallate e nelle montagne del Tibet. Ogni villaggio e ogni monastero può raccontare storie di crudeltà inflitte al nostro popolo e tutte queste sofferenze continueranno finché il Tibet non tornerà libero”. Dal 2009 molti tibetani hanno scelto di autoimmolarsi con le fiamme, come gesto estremo di protesta: dopo più di mezzo secolo dalla rivolta di Lhasa, il motto – essi dicono – è e sempre sarà: “Libertà e indipendenza”.
Si onora qui la Memoria di tutte le Vittime del Comunismo in Cina: da quelle del “Grande Balzo in Avanti” del 1958-62, di Mao Tse-Tung, che provocò una carestia di proporzioni apocalittiche (le stesse fonti ufficiali cinesi parlano oggi di una cifra “minima” di 45 milioni di morti), a quelle della “Grande rivoluzione culturale proletaria” del 1966-69, anch’essa lanciata dal “Grande Timoniere”; dal massacro degli studenti in piazza Tienanmen (1989), che pose fine alle speranze suscitate dalla breve “Primavera” di Pechino, all’orrore dei “laogai” cinesi, un sistema di campi di concentramento, prigioni, centri di detenzione e ospedali psichiatrici tuttora operanti, oggi, nel terzo millennio. Ancora oggi il lavoro forzato in queste strutture, le esecuzioni capitali, i traffici di organi umani e la persecuzione contro i pacifici praticanti della Falun Dafa (o Falun Gong), che si fonda sui principi base di Verità, Compassione e Tolleranza, continuano nell’oblio del mondo. Martiri e Giusti, di ieri e di oggi, sono di certo: i Padri Beda Zhang e Giovanni Huang, i Vescovi Ignazio Gong (Kung) Pin-mei, Giuseppe Fan Zhongliang e Giacomo Su Zhimin; i tre eroi gentiluomini di piazza Tienanmen Lu De Cheng, Yu Zhijian e Yu Dongyue; i Premi Nobel per la Letteratura Gao Xingjian e per la Pace Liu Xiaobo; Hu Jia, attivo esponente del dissenso, gli avvocati a piedi nudi, difensori delle Vittime di soprusi, cui sono negati i più elementari diritti, tra i quali Chen Guangcheng, che ha denunciato 130.000 casi di aborti forzati. A dispetto della sua cecità, egli è considerato esempio di Luce (Guang) e Onestà (Cheng), le parole che formano il suo nome.
La vicenda relativa al Martirio del Popolo Cambogiano, col genocidio messo in atto dai Khmer Rossi, è forse la sintesi di tutto il percorso storico compiuto dall’utopia comunista tra feroci dittature, rivoluzioni e massacri che con Pol Pot – il sanguinario “Fratello Numero Uno” del famigerato partito unico che diede vita alla “Kampuchea Democratica” – e i suoi seguaci, raggiunse l’apice dell’orrore. Lo spopolamento di intere città, la costruzione di una nuova civiltà contadina, il mito della monocultura risicola, l’annullamento di qualsiasi sentimento umano e il massacro di intere minoranze e classi sociali, sono gli aspetti più evidenti della società che il dittatore tentò di creare. Il numero delle vittime causate dal regime dei khmer rossi è discordante: si va da uno a più di tre milioni di morti. Un genocidio silenzioso è in atto da decenni contro la minoranza cristiana dei Montagnard, o Cristiani Degar (“figli delle montagne”), come essi si autodefiniscono, chiamati in lingua vietnamita “moi” (selvaggi) o “nguoi dan toc” (popolo tribale), che vivono tra Vietnam e Cambogia, e ridotti, dalla fine della colonizzazione francese ad oggi, da tre a meno di un milione di individui. Nel 2007, in Birmania, furono i Monaci Buddhisti a guidare la protesta pacifica contro un regime efferato e ad andare incontro, insieme ai civili, ad arresti, torture ed esecuzioni. In Corea del Nord, il regime comunista fondato da Kim Il-Sung, “presidente eterno”, perseguita ancora oggi e rinchiude nei gulag, veri e propri campi di concentramento, chiunque si opponga alla dittatura o professi una religione.
La storia coloniale e post-coloniale africana è costellata di violenze inaudite. Due esempi, tra i numerosissimi che meriterebbero di essere riportati: nelle due guerre della Repubblica Democratica del Congo, tra il 1996 e il 2003, morirono 5 o 6 milioni di persone; in Rwanda, durante il genocidio etnico (1994), che causò circa un milione di Vittime, gli Hutu quasi “ripulirono” il Paese dalla presenza dei Tutsi. Tra le “Luci” di Umanità che brillarono nelle Apocalissi Africane, ricordiamo: Pierantonio Costa, console italiano in Rwanda, che negli anni del genocidio riuscì a salvare circa 2000 persone; Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia nel ‘94: indagavano su un traffico internazionale di veleni, rifiuti tossici e prodotti radioattivi…; l’algerina Khalida Toumi Messaoudi, paladina dei diritti delle donne nei Paesi Islamici; Sylvie Maunga Mbanga, avvocatessa congolese, dal ‘99 impegnata in difesa delle vittime della violenza sessuale; Hawa Aden Mohamed, maestra somala che si batte per i diritti delle bambine e, per questo, oggetto di continue minacce; Halima Bashir, dottoressa in Darfur (Sudan), violentata e imprigionata per aver denunciato a funzionari dell’ONU lo stupro delle bambine di una scuola; Ricky Richard Anywar, fondatore di “Friends of Orphans”, ex bambino-soldato ugandese; Betty Makoni, donna dello Zimbabwe, stuprata all’età di sei anni, e che nel 1999 fondò il “Girl Child Network”, che svolge opera di riabilitazione delle bambine vittime di abusi.
L’America Latina è un universo eterogeneo dove coesistono, fianco a fianco, arretratezza e sviluppo economico frenetico, che determinano tensioni sociali talvolta esplosive. Non si contano gli esempi di Coloro che, nel corso della storia, hanno incarnato l’aspirazione alla Giustizia e le espressioni più alte della sofferenza di quei popoli, a prescindere dalla colorazione politica dei governi in carica. Onoriamo quindi la Memoria dell’arcivescovo di San Salvador Óscar Romero, ucciso nel 1980 da un cecchino mentre stava celebrando la Messa, a causa del Suo impegno nel denunciare le violenze della dittatura militare nel suo Paese. Non scenda l’oblio né sui Martiri della Cristiada (1926-29), la cosiddetta “Vandea Messicana”, né su quelli della dittatura castrista, a Cuba, in atto dal 1959; non dimentichiamo infine le Vittime, sia della dittatura militare (1976-1983) sia delle organizzazioni terroristiche (ERP e Montoneros) in Argentina: entrambe hanno sofferto lo stesso dolore e terrore. Tra quanti si occupano delle Vittime e dei Perseguitati nell’ambito delle tragedie in America Latina, ricordiamo: le “Madres de Plaza de Mayo”, formata dalle madri dei “desaparecidos” durante la dittatura militare, e il “Centro de Estudios Legales sobre el Terrorismo y sus Victimas”, che, sull’altro versante politico, si adopera viceversa in favore dei familiari delle “altre” Vittime, sempre argentine, assassinate dalle organizzazioni terroristiche guerrigliere; ed infine le “Damas de Blanco”, mogli e madri dei dissidenti cubani in carcere, che manifestano per la loro liberazione.
“I soldati stanno uccidendo indiscriminatamente – Sparano su donne e bambini – SOS…” (Alarico Fernandes, Ministro dell’Informazione di Timor Est, 7 dicembre 1975).
Abbandonata dalla potenza coloniale del Portogallo, la parte orientale dell’isola di Timor divenne preda delle mire espansioniste del dittatore indonesiano Suharto. Dal 1975 al 1999 il regime di Djakarta operò un genocidio contro il popolo di Timor Est, nel silenzio del mondo e con modalità agghiaccianti: uccisioni di massa con armi da fuoco o col machete, bombardamenti al napalm e al fosforo sui villaggi, lanci da elicotteri, sparizioni, morti indotte per malnutrizione o a causa di sfiancanti marce forzate, violenze su bambini, le cui teste venivano talvolta sfasciate contro le rocce. Anche documentare le stragi significava rischiare la vita: Greg Shackleton, Tony Stewart, Gary Cunningham, Brian Peters e Malcolm Rennie, 5 reporter con passaporto australiano, neozelandese e inglese che, il 16-10-1975, stavano documentando un attacco indonesiano, furono per questo trucidati. Nel 1996, lo strazio di questo Popolo venne riconosciuto con i Nobel per la Pace al vescovo Mons. Carlos Filipe Ximenes Belo e a José Ramos-Horta. Tutto ciò, insieme alla liberazione di Xanana Gusmão, uno dei Padri dell’Indipendenza di Timor Est, non ha però ancora portato vera pace e prosperità: enormi sono gli strascichi della sanguinosa occupazione e deboli le istituzioni.
Nella ex Jugoslavia, tra il 1990 e il ‘99, il Male esplose sotto le mentite spoglie di ragioni etnico-religiose, trasformando in nemici quelli che poco prima erano amici o parenti. Ed è in questo drammatico contesto che si inseriscono sia la storia “censurata” legata agli eventi di Srebrenica (1995), sia l’intervento militare della NATO, messo in atto con la cosiddetta operazione “Angelo Misericordioso” (24 marzo – 10 giugno 1999): 78 giorni durante i quali, in Serbia e Montenegro, vennero bombardati e distrutti ospedali, industrie, treni, ponti, chiese e, moralmente, l’anima stessa di quei Popoli! Le conseguenze si fanno sentire ancora adesso in Serbia, con la gente che continua ad ammalarsi e a morire, avvelenata a causa delle munizioni all’uranio impoverito allora utilizzate, di cui furono vittime inconsapevoli anche moltissimi militari italiani che le adoperarono. Nefasta eredità, inoltre, è oggi l’inquietante presenza di campi jihadisti, specie in Bosnia e Kosovo: in quest’ultimo Paese le minoranze serbe e i monasteri ortodossi “superstiti” (patrimonio mondiale inestimabile di arte, cultura e della cristianità serbo-ortodossa), sono costretti a “sopravvivere” sotto la protezione NATO Kfor, per difendersi dalle violenze degli estremisti musulmani albanesi. A nome di tutti i “Giusti”, di ogni etnia e credo, onoriamo come esempio supremo di Pace la Memoria di Gabriele Locatelli, dell’associazione “Beati i Costruttori di Pace”, ucciso da un cecchino a Sarajevo sul ponte Vrbanja, il 3 ottobre 1993, nel corso di un’azione dimostrativa in favore della Pace in quella martoriata città.
“Questo Paese (Israele) esiste come il compimento della promessa fatta da Dio stesso. Sarebbe ridicolo chiedere conto della sua legittimità”. (Golda Meir, Le Monde, 15 ottobre 1971).
“Al-Nakba” significa in arabo “catastrofe”: è la ricorrenza nella quale il Popolo Palestinese rievoca la cacciata di buona parte degli abitanti arabi della Palestina dai confini dello Stato di Israele, nato il 14-5-1948, con la fine del mandato britannico in Palestina. Circa 750.000 Palestinesi, l’80% dei residenti della Palestina storica, divennero profughi: oggi sono quattro milioni. Tra i suoi Martiri: Wael Abdel Zwaiter e Said Hammami, rappresentanti dell’OLP rispettivamente a Roma e Londra, Ghassan Kanafani, scrittore palestinese; Emil Greenzweig, pacifista israeliano. La Knesset ha varato nel 2010 una legge che vieta di manifestare dolore in Israele il 15 maggio, il “Nakba Day”. La Terra Promessa di Abramo, è tuttora bagnata dal sangue: violenze, guerre, occupazioni e terrorismo alimentano l’odio che genera solo sconfitti e cementa quel Muro che per chilometri ferisce l’orizzonte e la vita. Oltre quel confine, tracciato dalla vendetta e dalla paura, vive il Popolo Palestinese e, in esso, i cristiani palestinesi, minoranza discriminata e segregata, ultimi tra gli ultimi. Ma il seme della speranza germoglia anche tra le spine: tra Gerusalemme e Tel Aviv sorge l’oasi di pace Nevé Shalom – Wahat as-Salam (NSWAS), villaggio cooperativo abitato da arabi ed ebrei che, senza alcuna distinzione religiosa, educa al rispetto della diversità e alla fratellanza, ponendosi a servizio del dialogo tra i Popoli, per un sospirato futuro di Pace.
“La resistenza curda va sostenuta, perché noi, dalla prima linea, stiamo combattendo per i diritti di tutte le donne ovunque esse siano” (Narin Afrin, una delle comandanti kurde nella battaglia contro l’ISIS a Kobane)
I Kurdi sono un popolo di oltre 25 milioni, ridotti a essere minoranza sul territorio in cui da millenni hanno le loro radici. Dal 1923 (Trattato di Losanna) questo popolo diviso tra Turchia, Iran, Iraq e Siria è vittima di stragi e persecuzioni. Le potenze mondiali e i paesi dell’area non vogliono riconoscergli il diritto ad avere un proprio stato, sia per potersi dividere il petrolio e le acque del Kurdistan, sia per motivi politico-strategici. Ma i Kurdi persistono, pagando prezzi altissimi, nel difendere la loro lingua, la loro cultura, la loro terra. In memoria delle innumerevoli vittime della lotta del popolo kurdo per il diritto di esistere e per la propria millenaria identità culturale ricordiamo Arin Mirkan (1992-2014), comandante di plotone dell’Ypg – Unità di Protezione del Popolo, madre di due figli, caduta eroicamente nella leggendaria difesa di Kobane; Musa Anter (1918-92), scrittore e giornalista, ucciso per strada, in Turchia, da un sicario; Sherko Bekas (1940-2013), poeta e drammaturgo, combattente peshmerga e ministro della Cultura nella Regione autonoma del Kurdistan, in Irak; Abdul Rahman Ghassemlou (1930-1989), intellettuale, saggista, leader del Partito Democratico del Kurdistan – Iran, assassinato a Vienna da emissari della repubblica islamica dell’Iran; Xegherxwin, pseudonimo di Sheikhmous Hasan (1903-1984), uno dei più rinomati scrittori e poeti kurdo-siriani, incarcerato, torturato, costretto all’esilio.
IL CANTO DEI MARTIRI
Il piccolo bambino è in questa guerra
e il cannone ha ruggito! Destate i cuori!
Il suo cuore innocente ha gridato: Ahhh!…
ed egli, di pochi mesi, è morto.Oh, potenti del mondo! Dove è il giorno?
Il mio cuore è diventato a pezzi e lacrime.
Oh, potenti del mondo! Dov’è la pace?…
Il mondo ha voltato le spalle, e i cuori sono morti.
Pascale Zerez, siriana di religione cristiana, non era ancora maggiorenne quando nel 2012 scrisse musica e testo di questo inno struggente, dedicato a tutti i Siriani innocenti, di qualunque religione, orientamento politico ed appartenenza etnica, che stavano morendo per la guerra, non immaginando di certo che è come se l’avesse scritto per se stessa. Pochi mesi dopo, difatti, a soli 18 anni, verrà uccisa dai terroristi ed invasori della Siria, appena celebrato il suo matrimonio. Solo alcuni anni prima Monsignor Paulos Faraj Rahho, arcivescovo di Mosul, nel vicino Iraq, durante un’intervista a Rodolfo Casadei del 9 gennaio 2008, due mesi prima di essere ucciso, il 12 marzo 2008, aveva così lucidamente profetizzato: «L’Iraq sotto un potere islamico oscurantista sprofonderà nella povertà e nell’impotenza, e i poteri internazionali potranno dominarlo meglio».
Nel cimitero di ogni olocausto esiste il riquadro dei “Giusti”. Anche per il Donbass dovrebbe esistere tale riquadro, ove apporre il nome degli Eroi che hanno fatto propria la famosa frase: “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. I combattenti del Donbass si sono distinti nel respingere gli attacchi dell’esercito “punitore” ucraino per difendere la propria terra. Come disse Evghenij Ishenko, ucciso a freddo il 22/1/2015 mentre consegnava aiuti umanitari alla popolazione di Pervomajsk: “O moriamo difendendo la nostra terra o vinciamo per vivere felici … non mi serve la scorta, se sono destinato a morire mi ammazzano lo stesso, ma almeno risparmio la vita agli altri”. Un altro eroe, il comandante Aleksej Mozgovoj, fu ucciso insieme ad altri 7 compagni in un agguato. La guerra contro il Donbass è stata scatenata dalla giunta militare di Kiev, salita al potere col “golpe” del 22/2/2014. Le pacifiche proteste per acquisire autonomia sono state annegate nel sangue e a Odessa, il 2-5-2014, vennero arsi vivi 48 civili nella Casa dei Sindacati. Col referendum dell’11/5/2014 si sono autoproclamate repubbliche indipendenti le regioni di Donezk e Lugansk, dove la punizione ucraina ha falcidiato anche tanti giovani eroi: Vladislav Tokarcjuk, 17 anni, ucciso nella battaglia di Ilovajsk mentre, portando in salvo due compagni feriti, apriva il fuoco contro il nemico, spezzando così l’accerchiamento e permettendo la vittoria; Vsevolod Petrovskij, 28 anni, che ha perso la vita nella sacca di Debalzevo attirando il fuoco su di sé e salvando così i compagni; Kirill Sidorjuk, 13 anni, morto facendo scudo con il suo corpo alla sorellina di 9 anni durante un bombardamento. Il genocidio continua … sono più di 7000 i morti, fra cui oltre un centinaio sono bambini… sulle cui tombe piangono altri bambini!
Una delle grandi tragedie silenziose è la lenta scomparsa dei più piccoli popoli indigeni sparsi in 75 paesi e appartenenti ai circa 5000 popoli indigeni: 400 milioni di persone che lentamente spariscono a causa della globalizzazione, del consumo sfrenato di materie prime o delle privatizzazioni indiscriminate di ciò che una volta era loro proprietà collettiva. I Penan del Borneo, ad esempio, rischiano di scomparire per il taglio selvaggio delle loro foreste. E così, a causa dello sfruttamento di petrolio, molti piccoli popoli indigeni del Nord della Russia: Elena Kolesova ha pagato con il carcere il suo impegno a favore degli Evenki. Stessa situazione colpisce piccoli popoli in Nepal o Indonesia, vittime di progetti minerari o di piantagioni di palma da olio. In India, nell’area delle Isole Andamane, la tribù dei Bo si è estinta nel 2010 e stessa sorte rischiano Jarawa, Andamanesi, Nicobaresi e Sentinelesi, sacrificati a progetti di sviluppo turistico. In Amazzonia vivono le ultime tribù incontattate al mondo, ma i loro spazi si restringono sotto l’incedere delle ruspe che penetrano sempre più nella foresta: anche per loro si batté Chico Mendes, finché non fu ucciso nel 1988 per il suo impegno ambientalista. E infine l’Africa, che vede la faticosa lotta per la sopravvivenza dei San (boscimani), in Botswana, o dei Pigmei, nella fascia equatoriale. Senza la possibilità di decidere autonomamente come e dove vivere, i piccoli popoli sono costretti ad abbandonare le loro terre e a seguire il triste cammino che inevitabilmente condurrà alla loro scomparsa. La lista è lunga, come lunga sarà la battaglia per evitare che così tanti popoli scompaiano per sempre.
Si commemorano e si rende qui omaggio alle innumerevoli Vittime di Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta e delinquenza organizzata: cittadini comuni, magistrati, uomini delle forze dell’Ordine che hanno sacrificato la loro vita in nome e in difesa delle leggi dello Stato. “La lotta alla mafia – scriveva Paolo Borsellino – deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Aggiungeva l’amico e collega Giovanni Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano; restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini” Ogni 21 marzo, dal 1996, si celebra la “Giornata della Memoria e dell’Impegno per ricordare le vittime di tutte le mafie”.
Si ricordano e si onorano in questo luogo tutte le Vittime del terrorismo politico che, a partire dal 1969, per due decenni insanguinò l’Italia con stragi, attentati ed omicidi individuali: circa 14.700 atti terroristici contro l’ordinamento dello Stato ad opera di 215 organizzazioni di sinistra e 55 di destra. “Ogni posizione distruttiva e potenzialmente violenta – diceva Aldo Moro – non può non essere severamente condannata.” Nel 2007 è stato istituito il “Giorno della Memoria dedicato alle Vittime del Terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice”, celebrato ogni anno il 9 maggio, anniversario dell’assassinio del grande statista (1978) da parte di terroristi delle Brigate Rosse, tardivo riconoscimento al sacrificio di tanti cittadini, difensori e servitori dello Stato.
Sterminato è l’elenco di nefandezze di cui l’uomo è capace: mafia, terrorismo, tratta di esseri umani, finalizzata a qualsiasi tipo di sfruttamento. E ancora la lista di orrori messi in atto contro il mondo femminile, fin dalla più tenera età: discriminazioni e stermini legati al sesso anche appena dopo la nascita, stupri di massa (specialmente in zone di guerra), mutilazioni genitali, femminicidio. Ma il male non conosce mezze misure, ed ecco ancora: lavoro minorile, genocidi culturali, ambientali, ideologie fondamentaliste che hanno come radice comune odio e intolleranza. Si tratta di catastrofi planetarie, globalizzate, che si consumano nel totale disprezzo della Vita e della Dignità Umana. Eppure, là dove vive il Male, spesso si annida il Bene: quanto numerosi sono a riguardo gli Esempi da emulare di Donne e Uomini, ovunque nel mondo! A nome di tutti, onoriamo le scelte di vita di due adolescenti pakistani: Iqbal Masih, sindacalista bambino che ha scosso ovunque le coscienze sul dramma del lavoro minorile nel suo Paese, ucciso il 16 aprile 1995, all’età di 12 anni, da un sicario affiliato alla mafia dei tappeti; Malala Yousafzai, sopravvissuta il 9 ottobre 2012, quando aveva solo 13 anni, ad un attentato dei talebani, messo in atto per punire il suo coraggioso impegno in favore del diritto all’istruzione per tutti, anche per le ragazze. Ha scritto Malala: “L’istruzione è un diritto per tutti, anche per i figli e le figlie dei taleban… prendete i vostri libri e le vostre penne, sono la vostra arma più potente… tutto quello che voglio è l’istruzione, ed io non ho paura di nessuno… se a questa generazione non daranno penne, i terroristi daranno pistole…”
“Sono diventato Morte, il distruttore di mondi”: questa la famosa frase pronunciata dal fisico statunitense Julius Robert Oppenheimer – la cui fama è legata alla costruzione della prima bomba atomica, nell’ambito del progetto Manhattan – commentando il primo test nucleare (“Trinity” il suo nome in codice), avvenuto nel poligono di Alamogordo (situato nello Stato del Nuovo Messico – USA) il 16-7-1945. Da allora questo funesto presagio è diventato tragica realtà per gli anni successivi, con milioni di Vittime, senza “distinguo” fra nucleare militare e civile: da Hiroshima e Nagasaki a Mayak, Chernobyl e Fukushima, passando attraverso test criminali, silenzi e censure da parte di gruppi di potere e agenzie internazionali. Per aver apertamente denunciato tutto questo, il Prof. Yuri Bandazhevsky è stato perseguitato e imprigionato, ma i suoi esperimenti continuano a rimanere un inconfutabile atto di accusa, scientifico e reale, del “fallout” globale che sta ipotecando il futuro delle generazioni a venire. Negli ultimi decenni sono stati avviati scellerati progetti di modifica ambientale che, nel quadro della geoingegneria, si servono del sistema H.A.A.R.P., definito dal Parlamento Europeo “una ricerca seriamente nociva per l’ambiente con conseguenze incalcolabili per la vita umana”, e delle scie chimiche, la parte visibile dell’intervento umano nei nostri cieli: il tutto secondo un piano di controllo globale militare, politico ed economico da parte di una ristretta élite che, peraltro, ha anche introdotto e diffuso a livello mondiale l’uso di coltivazioni O.G.M. su vasta scala.
Quando uno acquisisce
una quantità infinitesimale di Amore
si dimentica di essere Cristiano, Musulmano,
Ebreo, Buddista, Induista, Bahá’í, Ateo…
L’Amore è al di sopra di ogni autorità,
di ogni fede o dubbio, e codice di legge…
Non impone né accetta
imposizioni autoritarie e fanatiche.
Rispetta ed esige rispetto.
In nome dell’Amore,
ognuno da se stesso,
tolga dal proprio occhio
la trave del Male
che gli impedisce di vedere… Bene!
“Non è tollerabile che una banca centrale, isolata, che non ha nessuna responsabilità né l’obbligo di spiegare quello che fa, possa continuare a creare disoccupazione mentre i governi stanno zitti”. (Franco Modigliani, 1918-2003, premio Nobel per l’Economia 1985)
“Senza la Sovranità Monetaria le nuove generazioni non avranno altra scelta che quella tra il suicidio e la disperazione”. (Giacinto Auriti, Giurista, Saggista e Professore di Diritto)
Esiste un potere maligno, materiale e spirituale, “nascosto” e “senza volto”, consolidatosi nei secoli, che opera attraverso strumenti quali il controllo monetario e l’utilizzo della finanza, che è alla radice della maggior parte delle piaghe che affliggono l’umanità: guerre, carestie, fame, esodi di massa e disoccupazione. Un Genocidio planetario. Esso – intento a costruire un “nuovo mondo”, a prescindere da coloro che lo abitano, e una nuova umanità, a prescindere dalle sue specifiche e ineliminabili necessità materiali e spirituali – è stato in grado di ideare e pilotare catastrofiche crisi economiche. Come quella del ‘29 o quella in cui il mondo è precipitato dal 2008: un crimine realizzato mediante un sistema fondato sul Debito e che, attraverso sofisticate strategie di distrazione di massa, rende schiave ed oppresse le persone, istigandole addirittura al suicidio: orribile sacrilegio contro l’Uomo e la Vita, di cui viene qui resa testimonianza, in Memoria di tutte le sue Vittime, ovunque sulla Terra.
Scriveva Oscar Wilde che “il mistero dell’Amore è più grande del mistero della Morte”. L’Amore autentico si dirige sempre verso il Prossimo, fino a donare anche la propria vita, se necessario, senza mai nulla chiedere. Le testimonianze d’Amore qui proposte, diverse tra loro per istanze e presupposti, convergono però verso un unico messaggio, che riconosce la Vita come Valore Universale che sovrasta ogni posizione ideologica, autentico cardine dello sviluppo della civiltà. La sacralità della vita che germoglia nel ventre materno è ritenuto ingombrante fardello per una certa cultura che, soggiogata dal pregiudizio, sopprime la vita. Ma c’è chi sa piegarsi con dolcezza e amore sul mistero dell’altro, facendo della propria vita un dono: come le suore dell’Orfanotrofio della Créche (Betlemme), che raccolgono madri musulmane o cristiane, con bambini concepiti al di fuori del matrimonio, entrambe ripudiate dalle famiglie e dalla società civile, salvando loro la vita; o Giovanna Beretta Molla, che rifiutò ogni cura contro il cancro per salvare la figlia che portava in grembo, perché, come Lei diceva, “Amore e Sacrificio sono così intimamente legati, quanto il sole e la luce”, ed ancora: “Non si può amare senza soffrire e soffrire senza amare”; o il ginecologo Maurice Caillet, ateo razionalista, membro storico dell’Organizzazione per la Pianificazione Familiare, che praticava la contraccezione artificiale e la sterilizzazione prima ancora che in Francia fossero legalizzate, Maestro Venerabile di una delle più importanti logge del Grande Oriente di Francia, che divenne alfiere della Vita e della Luce, dopo aver conosciuto l’oscurità delle tenebre, pagando il prezzo di questa sua nuova scelta di vita con la carriera professionale e sociale.