Pontelandolfo Millenarie Vicissitudini
Quando si parla di Pontelandolfo e della sua storia ultramillenaria, non si può prescindere dalla preziosa testimonianza che è la Monografia di Pontelandolfo dell’insigne Daniele Perugini, consegnata alla lettura dei posteri nel 1878.
Certo è, che un Manfredi fu signore di Pontelandolfo, e nel 1273 lo era un Matteo suo figlio. Nel documento del 20 settembre 1273 (riportato dal Borgia vol. 111, pag. 106), relativo al Casale di S. Teodora, che era di spettanza della Metropolitana di Benevento, interviene Nobilis vir Matheus de Pontelandulpho fihius Nobilis viri Domini Manfredi domini Pontislandulphi…; e dichiara che non molesterà mai e né farà molestare gli uomini di detto casale, vassalli della maggiore Chiesa, sotto pena del pagamento di 500 once d’oro.
Il Perugini, nella sua citata Monografia del 1878, scrive: Un miglio circa al nord dell’attuale Castello evvi un’amena e spaziosa pianura denominata Sorgenza circondata d’ogni intorno da colline coverte da alberi, quivi da per ogni dove si ammirano ruderi di Romana costruzione, e come diremo ad un antico Pago si apparteneva.
La descrizione dell’amena località è riferita al detto casale di Santa Teodora di cui al citato documento del 1273.
Un tiepido alito di vento - narra un’antica leggenda - accarezzava le gemme in fiore e si posava di ramo in ramo. Languidamente scendeva dai monti, e si incuneava tra gli edifici. Il magico chiarore del plenilunio in atto dipingeva ogni luogo di luce divina. Il profumo aulente della primavera inebriava senza tregua gli abitanti del villaggio e coinvolgeva ogni essere vivente in uno stato generale di ebbrezza.
I sacerdoti deputati all’officio della consacrazione alle divinità completavano in religioso silenzio il rito della vestizione degli abiti sacrali, mentre i vecchi saggi continuavano incessantemente a recitare misteriose preghiere di buon auspicio.
Miriadi di limpide e scoppiettanti fiammelle circondavano il tempio, mentre una nuvola di fumo bianco pesantemente si diradava nell’aria lasciando dietro di sé molteplici particelle di odore pungente.
Come le leggi dell’antica tradizione imponevano, tutti i preparativi necessari affinché potesse aver luogo l’officio del ver sacrum erano stati messi a punto con meticolosa attenzione sotto l’egida dell’anziano meddix .
Cinquanta primogeniti - equamente divisi tra uomini e donne - si accingevano a porgere l’ultimo saluto ai familiari prima di concedersi in sacrificio al dio Mamerte. I sacrati erano ormai pronti ad abbandonare il gruppo di appartenenza e dirigersi verso altri orizzonti alla conquista di nuove terre.
Sotto un vessillo raffigurante l’invulnerabile leone di Nemea, che il divino Ercole soffocò e della cui pelle si fece un mantello, gli adolescenti lasciarono senza rimpianti la terra natale degli Osci ed intrapresero con vigore la loro marcia lungo l’antico tratturo dai contorni modellati dalle pendici di impervie montagne e di aridi altopiani che, da Pescasseroli, ai confini tra l’Abruzzo e il Molise, conduceva a Candela nelle Puglie.
Camminarono, senza concedersi pause, per diversi giorni e diverse notti nella fiduciosa attesa del divino segnale che indicasse loro la terra stabilita.
Soprafratti dalla sfiducia e dalla stanchezza si trascinavano a fatica, attanagliati dalla morsa del caldo e dell’afa. Il silenzio delle tenebre fitte improvvisamente fu scosso da un ruggito terrificante. Per un attimo la compagnia ebbe un sussulto. Era quello il segnale che tutti attendevano con ansia spasmodica. Nessun ordine fu impartito da alcuno. Fu la mano divina a guidare i ragazzi che, miracolosamente rinvigoriti, abbandonarono la strada principale e si diressero attraverso un sentiero più stretto, una sorta di percorso naturale tracciato dal continuo spostamento stagionale degli animali allo stato brado in cerca di pascoli.
Man mano che essi procedevano la luce del sole rischiarava il cammino. Il sentiero, angusto all’origine, proponeva ora paesaggi ameni e ricche distese di verdi pascoli. Fresche sorgenti di acqua apparivano molteplici agli occhi increduli dei guerrieri pastori. L’aria diveniva sempre più frizzante e piacevole tanto da restituire forza e coraggio ai giovani conquistatori.
Il sentiero scomparve come per incanto e ad esso prese posto una immensa, lussureggiante pianura circondata da giganteschi alberi secolari e bagnata dalle spumeggianti e fresche acque del torrente Alenticella a valle e dalle calde acque del Resicco a monte. Era la Piana di Sorgenza. Incantevole terra alle falde del Matese strategicamente posta tra Saepinum e Beneventum, a circa un chilometro dall’attuale Pontelandolfo, nelle immediate vicinanze della principale via di comunicazione Sannita che dal territorio dei Pentri raggiungeva la Puglia dopo aver toccato Bovianum, Saepinum, Beneventum, Aequum Tuticum e Geronium.
Fu proprio qui che, ostentando forza e sicurezza, orgogliosi dell’impresa, conficcarono al suolo il vessillo del leone di Nemea e stabilirono la loro nuova dimora. E fu in onore del dio Ercole che fondarono il Pagum Herculaneum (Villaggio di Ercole). Correva l’anno 400 a.C. circa.
Gli abitanti del villaggio trascorrevano le giornate in allegria: la fertilità dei campi e la bontà dei pascoli assicuravano loro vitelli grassi ed ottimo vino per le “grandi abbuffate” notturne tra dolce musica e ricche danze, dopo che essi avevano rigenerato il proprio corpo nelle calde acque termali del Resicco, ai piedi del colle Montolfo. Raramente erano costretti alla pratica della transumanza lungo le calles, i sentieri che attraversavano il Sannio e conducevano ai pascoli invernali.
Ma la pace e la prosperità durò solo pochi decenni. Dal 343 al 295 a.C., infatti, i Sanniti furono coinvolti in diverse guerre contro l’ascesa di Roma che, culminarono nella battaglia di Sentinum (Umbria), dove si consumò la definitiva sconfitta dei Sanniti da parte dei Romani, divenendo quest’ultima la potenza dominante in Italia.
In seguito alla loro sottomissione, nel 180 a.C. i proconsoli romani P. Cornelio e M. Bebio Panfilo deportarono sui territori sanniti circa 47.000 Liguri Apuani, poi chiamati Bebiani. Nell’ambito di tale esodo forzato, un nutrito gruppo del nuovo popolo si stabilì nella Piana di Sorgenza per tenere sotto il loro giogo gli abitanti del Villaggio di Ercole.
Così nei secoli.
Il 21 luglio del 369 d.C. un terremoto si dilatò in tutto il Sannio, cancellando le tracce della civiltà e della presenza urbana .
Nell’862 d.C., in una calda notte d’estate, mentre corpi ubriachi, avvinghiati, senza le vesti che coprissero le nudità, si concedevano per l'ultimo piacevole atto della grande festa, il famigerato e terribile saraceno Sawdan piombò all’improvviso nel villaggio e con tutta la sua malvagità e la ferocia dei suoi uomini, si diede al saccheggio, devastando ogni cosa. Non ci fu tempo per organizzare una difesa, il Villaggio di Ercole in poco tempo fu completamente distrutto.
I pochi superstiti sfuggiti all’eccidio perché rifugiatisi tra la folta vegetazione del bosco adiacente, al calar della notte silenziosamente fecero ritorno al villaggio, raccolsero i corpi straziati dalle lame dei saraceni e diedero loro sepoltura nella piena del torrente Alenticella.
Quando tutti i corpi ormai erano stati inghiottiti dai flutti, improvvisamente un vortice separò le acque che ribollirono e da esse emerse maestosa Santa Teodora. Il suo celeste mantello fece da ponte tra le acque e la terraferma, ed il miracolo avvenne. I morti tornarono in vita. Prima i bambini, poi le donne e gli anziani, quindi tutti gli altri tornarono a ripopolare la Piana ed il risorto Villaggio di Ercole, al quale fu dato il nome di Casale di Santa Teodora.
Il Lungo dominio Feudale
Nell’anno 980 d.C. Landolfo, principe longobardo del Ducato di Benevento, concede all’abate Giovanni dei Benedettini Cassinesi il permesso di edificare un Castello, a Nord del Ponte di S. Anastasia, e più precisamente, a 500 mt. sull’Appennino Campano, nel sito in cui, alla distanza di circa 25 km. dal capoluogo e circa 80 km. da Napoli, s’incrociano e additano l’importanza strategica le vie di comunicazione provenienti dagli Abruzzi e dal Molise, dalla Capitanata, dal Beneventano e dalla Terra di Lavoro.
Una diversa interpretazione, motivata dal ritrovamento dello stemma custodito nella chiesa madre del SS. Salvatore, vuole che il principe longobardo “Landolfo”, a circa un chilometro dall’antico Casale di Santa Teodora della località Sorgenza, onde poter attraversare il torrente Alente fece costruire un ponte, al quale diede il suo stesso nome: da questo Pontem Landulphi (poi Pontelandolfo) il nome, evocato per la prima volta nel 1138 nella cronaca dello scrittore medioevale Falcone , per indicare l’abitato che si sarebbe formato nei pressi: … [1138.4.9] Et inde procedens castella alia comprehendit et comburi mandavit: Pontem Landulphi, Farnitum, Campugattari, et Guardiam et civitatem comprehendit Alifam, et igne consumpsit…
Può darsi benissimo che in quel medesimo sito nell’antichità sannitica vi sia stato uno degli Oppidi sanniti, sulla via Numicia, comunicante i Caudini con i Pentri.
E’ all’interno delle mura del Castello che vengono elevate le prime abitazioni del paese, che sarà chiamato – come narra lo storico Giovanni Pontano – Pontelandolfo in onore del principe Landolfo.
Al seguito dei Benedettini Cassinesi giunge nelle terre selvose del paese in edificazione una folta colonia di contadini ciociari.
Questi, insieme all’accentuazione fonica della loro parlata, di cui, tuttora, si connota il dialetto pontelandolfese, vi introducono l’usanza di calzare le ciocie o peroni e di praticare il gioco della ruzzola del formaggio.
Il paese è nominato la prima volta nel 1138 nella cronaca dello scrittore medioevale Falcone :
Il primo noto evento risale al 1138. Ruggero il Guiscardo, Re dei Normanni, a causa della ribellione del Conte di Ariano, incendia il castello di Pontelandolfo e pone fine, dopo circa 150 anni, alla pacifica e laboriosa Signoria dei Benedettini Cassinesi, che si erano attirati le sue ire per avergli promesso fede e, poi, rinnegata con l’arrivo dell’Imperatore Lotario di Lamagna e di Papa Innocenzo sulle alture di Montecassino.
Inizia per Pontelandolfo un lungo periodo di feudalità, intriso di odiosa dominazione e di vassallaggio a momentanei padroni, che durerà fino all’anno 1808 per complessivi 670 anni.
E’ chiaro, dunque, che Pontelandolfo era sito nella Contea di Ariano, la quale venne abolita dai Re Normanni. Però non fu messo nella Contea di Buonalbergo, composta nella parte maggiore di terre dell’Antica Conte di Ariano, ma venne conceduto al conte Goffredo di Lesina, il quale poi lo diede a Guglielmo Sanframondo, e questi ad un Ugo Bursello. Tanto risulta dal catalogo dei Baroni.
Nel 1138 ha inizio il periodo di feudalità normanno-sveva, con Ruggero Bursello , nominato da Re Ruggero primo feudatario di Pontelandolfo, e termina, nell’anno 1266, con la battaglia di Benevento allorquando Carlo d’Angiò sconfigge lo svevo Manfredi, si impadronisce del Meridione d’Italia e caccia dal Castello di Pontelandolfo l’ultimo feudatario fedele agli Svevi.
La feudalità angioina ha inizio con l’investitura onoraria a feudatario di Pontelandolfo di un tal Manfredi italiano, al seguito di Carlo d’Angiò, che termina nell’anno 1462 con la cacciata degli Angioini dal Regno di Napoli. Sotto Carlo I d’Angiò troviamo che Andrea ed Odorisio di Pontelandolfo furono nel novero dei guerrieri che fecero parte della spedizione d’Oriente.
Intanto nel 1349 un fortissimo sisma distrugge interamente l’abitato. Il terremoto del 5 dicembre 1456 pari a 8,5° della scala Mercalli, danneggia gravemente il paese.
Il 1° novembre 1462 Ferdinando o Ferrante I d’Aragona assedia e incendia il Castello di Pontelandolfo e ne toglie la feudalità al conte Niccolò Monforte da Gambatesa (CB), reo di essersi schierato dalla parte degli Angioini, per affidarla a Diomede Carafa, Cavaliere Napolitano.
… Ma sul principio dell’autunno del 1462 re Ferrante, che personalmente capitanava l’esercito ed aveva già sottomessi i baroni ribelli di Puglia, colto dal freddo e dalle piogge, a mezzo ottobre s’incamminò a capo dell’esercito, attraverso i monti per recarsi nel Sannio, ove il clima era più mite e il territorio più abbondante di vettovaglie. Giunta a S. Martino, dopo breve assedio, lo rese in poter suo; indi, passando per Riccia e Reino, giunse il 28 ottobre a Fragneto dell’Abate, e, trattenutosi ivi fino al 1° novembre per aspettare le artiglierie di legno, che per vie difficili seguivano lentamente l’esercito, corse ad assediare Pontelandolfo. Il conte (Niccolò Monforte) aveva munita la terra di forte presidio, e, per ingannare il re, cominciò a chieder tregua. Ma Ferrante si avvide dell’astuzia, e, dopo un assedio durato ben 11 giorni, nella notte del 13 al 14 novembre aprì la muraglia in più luoghi, mentre i difensori erano per arrendersi, così che la terra fu presa, mandata a sacco e bruciata. Divenuto padrone del castello e delle mura, vi rimase per due giorni ancora; e il 17 novembre aveva già piantate le tende presso Guardia, donde poi si volse all’assedio di Puglianello e d’altre castella e terre .
Con Diomede Carafa, primogenito di una lunga dinastia, ha inizio il lungo periodo di feudalità aragonese-spagnola e di altri dominatori, e termina con l’estinzione definitiva della feudalità - che anche qui faceva sentire la sua gravezza, pretendendosi onerosi pagamenti dai pastori che conducevano gli armenti sulle montagne - nell’anno 1808, quando muore Francesco Carafa, Principe di Colombrano, ultimo feudatario di Pontelandolfo.
I fatti d’arme del 14 agosto 1861
Oggi fanno eco in tutta la Penisola
le voci dei nostri antenati,
martiri della Unità d’Italia,
sepolti sotto i cumuli di cenere
dalla damnatio memoriae,
irrogata dalla storiografia dei vincitori
(Francesco Mario – Dossier Brigantaggio)
L’eccidio di Pontelandolfo scatenato per diritto di rappresaglia dal neo costituito Governo di Vittorio Emanuele II, I Re d’Italia, agli albori del 14 agosto 1861, fu un massacro di proporzioni catastrofiche. Una cittadina di oltre cinquemila abitanti, per lo più abitata da contadini (ben 4.311 nel 1857), incenerita dal rogo sabaudo.
Lo sterminio di una popolazione innocente, inerme, resterà scritto negli annali della storia del Paese come la prima vera strage impunita dell’Italia unita; come l’inizio della prima pulizia etnica della modernità occidentale, operata sulle popolazioni meridionali, antesignana della discriminazione etnica della Germania hitleriana.
La Legge Pica-Peruzzi, promulgata il 15 agosto 1863, la prima legge di pubblica sicurezza dello Stato Italiano che istituiva tribunali militari nel Sud e che permetteva la brutale repressione nel sangue meridionale, ne darà i connotati di un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall’esodo forzato.
Gli effetti di questa legge furono devastanti per il Sud di una giovane Italia unita. I provvedimenti punitivi e le sommarie condanne a morte consequenziali alla sua promulgazione, rappresenteranno uno dei più feroci atti di repressione della dignità della persona umana in Europa.
Migliaia di onesti contadini di Pontelandolfo, ingiustamente assimilati ai reazionari di stanza sulle alture matesine, i cosiddetti briganti, in tanti e bene armati, che avrebbero reso vita difficile a qualunque esercito, all’alba del 14 agosto 1861 furono catturati disarmati e dormienti nelle proprie umili abitazioni. Il paese di natura pacifica, improvvisamente si ritrovò in preda al saccheggio e alle fiamme.
Vecchi, giovani, padri, madri, preti, bambini colti nel sonno dalla fulminea invasione savoiarda, sotto il tiro funesto di 500 baionette di altrettante canaglie mercenarie assoldate nell’esercito italiano, dopo aver subito ore interminabili di torture e stupri, vennero condotti nel Largo Tiglio.
Smarriti, sconvolti da quell’apocalisse inaspettata, vennero legati sulle cataste di fascine secche, fatte raccogliere dai bambini del paese con la forza della costrizione, ammucchiate alla rinfusa nella grande piazza del paese.
Un giorno intero crepitarono i corpi senza vita di quella inconsapevole, povera gente. Al calar della sera erano ridotti in cenere fumante dal fuoco divampante appiccato ai piedi del Tiglio secolare su ordine del tenente colonnello Pier Eleonoro Negri di Locara frazione del Comune di San Bonifacio in provincia di Verona, ufficiale di famiglia patrizia veneta emigrato in Piemonte, spietato esecutore della volontà espressa dal famigerato Generale Enrico Cialdini, il “boia di Gaeta”, che da “militare italiano in grado” all’indomani della unificazione nazionale tuonò contro il paese del Sannio italiano: di Pontelandolfo non resti pietra su pietra!.
L’eccidio di Pontelandolfo fu l’inizio della prima guerra civile italiana che si concluse solo alla fine del decennio con la vittoria definitiva dei piemontesi e la morte di chi non abiurava o si sottometteva al nuovo governo dei Savoia.
Fu dittatura militare e censura per gli organi di informazione.
“Io sono come il tuo nome, non esisto nella storia d’Italia”
è il triste pensiero che il martire di Pontelandolfo rivolge al milite ignoto, in ginocchio sul sacello dell’Altare della Patria. Ma oggi, come scrive Francesco Mario Agnoli nel suo Dossier Brigantaggio – Viaggio tra i ribelli al borghesismo e alla modernità, “dobbiamo disseppellire i protagonisti veri per riportarli all’onore del mondo e farli conoscere ai loro inconsapevoli discendenti … il tempo e i luoghi simbolo delle rappresagli sabaude sono il 14 agosto 1861 e i paesi di Pontelandolfo e Casalduni … è inevitabile farvi ritorno, nonostante l’orrore delle fiamme, degli arsi vivi, degli uccisi a fucilate mentre tentano di sottrarsi ai morsi furibondi del fuoco, dei morti insepolti, perché qui, come intorno ad un picco di infamia e di dolore, si avvolgono e si increspano i tracciati di tutte le mappe, incluse quelle i cui estensori hanno scelto, per ipocrita carità di patria o altri meno nobili motivi, di cancellare i giorni e i luoghi”
Tantissime furono le vittime civili pontelandolfesi che con il sangue versato a fiumi nella piazza Largo Tiglio, pagarono con la morte il processo di unificazione nazionale del Paese, fin dai tempi di Petrarca additato come la Nazione delle divisioni. Un Paese che oggi sventola un solo vessillo, il tricolore italiano, che mai Pontelandolfo ha rinnegato.
Ma quella unità di popolo tanto agognata, tutt’ora non è compiuta. Una diversificazione interna che c’è sempre stata in un secolo e mezzo di storia, ancora oggi continua ad offendere la dignità delle genti Meridionali.
Centinaia, migliaia sono le vittime innocenti che da 150 lunghi anni implorano giustizia e onore e chiedono un nome da scolpire sui marmi del santuario del martirio post-unitario delle aree meridionali che Pontelandolfo rappresenta.
Se è vero come è vero che nella ricerca c’è la verità di tutto, non ci resta che destare la curiositas del ricercatore che è in noi per scoprire e propalare la verità sulle bellicose volontà politiche, che coinvolsero e travolsero Pontelandolfo, volutamente ottenebrata per un secolo e mezzo, per liberarci da ogni ipocrisia.
Affidiamoci alla lettura, allo studio e all’approfondimento di testimonianze e scritti autentici, consegnati a futura memoria dai protagonisti, quelli veri, quelli che vissero sul campo intriso di cenere e sangue quei momenti funesti dell’agosto 1861.
Imbocchiamo pure un percorso inedito, ma preciso sul piano storico, che ci possa condurre verso la reale storia dell’eccidio di Pontelandolfo.
La storiografia nazionale, quella scritta dai vincitori, non può e non deve più occultare quelle crudeli atrocità commesse da soldati italiani contro innocenti cittadini loro fratelli che nulla avevano a che fare con il fenomeno del brigantaggio.
“La lotta al brigantaggio finì col coinvolgere anche coloro che briganti non erano e comportò violenze inaccettabili da conquista coloniale. Gli episodi come quello di Pontelandolfo vanno ricordati: la storia non può essere scritta dai vincitori …” è il commento dell’ex Presidente del Consiglio on.le Giuliano Amato sull’episodio.
Furono avvenimenti dolorosi e drammatici. Furono accadimenti di inaudita brutalità consumati con disumana ferocia dall’esercito italiano agli albori della conquistata unificazione politica e militare dell’Italia, che segnarono tristemente e per sempre la storia ultramillenaria di Pontelandolfo e la sua gente.
“Essere italiani è una storia” è lo slogan del Museo Regionale dell’Emigrazione “Pietro Conti” di Gualdo Tadino. I martiri di pontelandolfo hanno scritto la storia degli italiani.
Molti cronisti e storici dell’epoca all’indomani degli accadimenti parlarono e scrissero di Pontelandolfo. In tanti, successivamente, hanno steso fiumi di parole su quei fatti d’armi dopo aver letto relazioni e rapporti epistolari degli autori dell’eccidio. Ma la verità di quanto accadde all’alba di quel fatidico 14 agosto è quella raccontata nel manoscritto degli episodi della vita militare del bersagliere Carlo Margolfo del 6° Battaglione 2° Compagnia 4° Corpo d’armata comandato dal generale Enrico Cialdini. Uno dei 500 soldati che parteciparono alla mattanza. L’inedito documento è stato oggetto di pubblicazione dal Comune e dalla Pro-Loco di Delebio, una borgata della Bassa Valtellina, con il titolo “Mi toccò in sorte il numero 15”:
Al mattino del mercoledì, giorno 14, - scrive Margolfo nel suo diario - riceviamo l’ordine superiore di entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, ed incendiarlo.
Difatti un po’ prima di arrivare al paese incontrammo i Briganti attaccandoli, ed in breve i briganti correvano davanti a noi, entrammo nel Paese subito abbiamo incominciato a fucilare i Preti ed uomini quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, abitato da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case.
Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare? non si poteva mangiare per la gran stanchezza della marcia di 13 ore. quattordicesima tappa.
Fu successo tutto questo in seguito a diverse barbarie commesse dal paese di Pontelandolfo: sentirete, un nido di briganti, e la posta la svaligiava ed ammazzava la scorta, fra i quali l’ultima volta che svaligiarono la posta era scorata da 8 soldati, e pure perirono i 8 soldati, lo stesso fu per il postiglione conduttore, e lasciarono in balia cavalli e legno.
Prima di questo poi era successo un caso molto strano al paese: essendo di passaggio in perlustrazione, una compagnia ha pernottato in una chiesa, ed era piena di paglia; i soldati (erano) molto contenti nel dire: “Questa notte riposeremo un poco”.
Come sia stato, i paesani volarono la sentinella senza il minimo rumore, e l’hanno squartata, tagliata a pezzi, e diedero fuoco alla paglia da un buco di loro conoscenza, quindi che hanno fatto questi poveri soldati? la figura che facevano adesso loro: abbrustolire dentro. Proprio quale barbaro paese fu questo Pontelandolfo, ma ora si è domesticato per bene.
… L’indomani, sabato 17, alle ore 6 di sera siamo partiti in un bosco lungo e largo più di 30 chilometri, e siamo giunti in Castelpagano, e via via, di nuovo, marce sopra marce, passando di S. Lupo, S. Lorenzo, e di nuovo Pontelandolfo, il quale lo vidi di nuovo dopo l’incendio: quale rovina si vedeva! …
Il 14 agosto 2011, in occasione della solenne commemorazione del 150° anniversario dell’eccidio, l’ex premier prof. Giuliano Amato Presidente del Comitato dei Garanti per le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, su delega del Capo dello Stato, scrisse la parola fine nel libro della storia ultramillenaria del paese con la fatidica dichiarazione: “A nome del Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, vi chiedo scusa per quanto qui è successo e che è stato relegato ai margini dei libri di storia”.
Il 14 agosto 2011 fu anche il momento della riconciliazione storica con Vicenza, la città natale del colonnello Pier Eleonoro Negri che aveva comandato i bersaglieri nell’eccidio. Il Sindaco della città veneta Achille Variati in piazza Concetta Biondi disse ai pontelandolfesi: “mi inginocchio davanti alle vittime innocenti del 1861, cui per tanto tempo, troppo tempo, non c’è stata la verità”.